Il Film
Otis è un attore a cui hanno rubato l’infanzia. Figlio di una madre altrove e di un padre tossico, è cresciuto (professionalmente) in televisione e (miseramente) in un motel di infimo ordine ai margini di Los Angeles. Dipendente dall’alcool e da un passato che non passa, Otis si schianta in macchina, resiste alla polizia e viene ricoverato in un centro di disintossicazione per alcolisti. In guerra col mondo e con la sua psicologa, che prova a ridurre la sua rabbia, Otis ripercorre la sua infanzia per lasciare andare il padre e trovare finalmente pace.

Fantasmi incalzanti che chiedevano uno schermo e una catarsi. Wonder boy di Hollywood, cresciuto in cattività su Disney Channel (Even Stevens) e battezzato da due pesi massimi al cinema (Steven Spielberg e Michael Bay), Shia LaBeouf è celebre per le sue qualità e per le sue innumerevoli intemperanze. Per aiutare i suoi fan a comprenderlo ma soprattutto per comprendersi meglio, l'attore decide di scrivere un film su se stesso dove interpreta il ruolo di suo padre, veterano del Vietnam col vizio dell'eroina e della crudeltà. Perché Jeffrey LaBeouf è come l'erba cattiva: inestirpabile, ostinato, resistente.
L'attore californiano va alla radice dei suoi problemi e alle sue radici, che qualche volta sembra voler strappare a mani nude. Honey Boy indossa l'armatura del racconto iniziatico, uno spazio teorico nel quale fare risuonare la relazione conflittuale di un figlio e di un padre che non ha fatto grandi cose nella vita se non far fuggire la moglie e alienarsi il suo ragazzo. Un clown professionista e itinerante che ha preso solo torte in faccia, le stesse che il figlio prende per gioco in una sitcom televisiva.
Nello scarto cova il rancore e la gelosia di un genitore che vomita narcisismo e verità indiscusse (e discutibili). Alma Har'el, che aveva già collaborato con Shia LaBeouf sulla clip "Fjögur píanó" dei Sigur Rós nel 2012, riattualizza il dolore e (ri)dà forma al peggiore incubo dell'attore, chiamandolo come Michael Bay alle armi e alla guerra. Quella risolutiva, quella che chiude i conti tra Shia, Otis sullo schermo, e suo padre.
La scrittura autobiografica e cinematografica rivela un potere lenitivo e ricostituente, che riconnette l'attore col mondo. Scritto durante il periodo di disintossicazione, Honey Boy esorcizza i demoni più tenaci di LaBeouf, vincendo la sua addiction all'alcool e al genitore che 'ha fatto (davvero) di tutto' per rendere celebre suo figlio. Ma quell'ascensione folgorante nel cinema popolare americano ha un rovescio della medaglia amaro, il giovane attore sperimenta il deragliamento di ogni genere prima di passare per la riabilitazione e rinascere dalle sue ceneri.

Alcune interessanti recensioni
Dopo aver incantato il Sundance Film Festival e la Festa del Cinema di Roma lo scorso anno, arriverà finalmente nelle sale italiane, su distribuzione Adler Entertainment, Honey Boy: l’opera prima della regista israelo-americana Alma Har’el mette in scena, prendendo come spunto la vita tormentata di Shia LaBeouf, il lato meno scintillante di Hollywood, rappresentato dai giovanissimi attori emergenti che, sfruttati dalle loro famiglie, hanno avuto poi nel corso della loro vita grandi difficoltà nel riuscire a lasciarsi alle spalle un passato complicato.
A leggere la trama di Honey Boy, data la tematica centrale, il rischio di trovarci di fronte ad un melò capace di far leva in maniera grossolana sui sentimenti del pubblico poteva essere concreto ma per fortuna Alma Har’el dirige una pellicola di grande spessore. La regista, che proviene dal mondo del documentario e dei videoclip, dimostra di essere a suo agio anche con il cinema di finzione: già dall’inquadratura iniziale infatti si capisce come la Har’el gestisca ottimamente sia le sequenze più costruite che le scene in cui la camera a mano è preponderante. Inoltre la durata della pellicola (appena 94 minuti) permette alla cineasta di eliminare i tempi morti, mantenendo in questo modo l’attenzione dello spettatore sempre alta.
Ciò che colpisce di Honey Boy è, nella sua drammaticità, la capacità di trasmettere un’atmosfera sognante, quasi favolistica, che lascia spazio alla speranza, offrendo al protagonista quel percorso verso la redenzione a cui si aggrappa con tutto se stesso. Grazie anche ad un casting perfetto, in cui spiccano il bravissimo Lucas Hedges (che abbiamo imparato a conoscerlo grazie allo splendido Manchester By The Sea) ma soprattutto lo straordinario Noah Jupe (ragazzino che a soli 15 anni vanta già una carriera cinematografica di tutto rispetto), è impossibile non provare empatia nei confronti di Otis.
Tuttavia, ciò che rende speciale la pellicola, è il contributo di Shia LaBeouf: l’attore diventato famoso con la saga di Transformers ha finalmente raggiunto la sua maturità artistica in questo progetto così personale. LaBeouf, nel periodo in cui si trovava in riabilitazione, scrisse la sceneggiatura del film come parte del suo programma di recupero e, a vedere il risultato finale, si capisce quanto la forza catartica di Honey Boy (il titolo si ispira al soprannome della star da bambino) sia dirompente. La scelta di interpretare il ruolo del padre di Otis era l’unica possibile per rendere il lungometraggio cinematograficamente potente; già in Nymphomaniac e Lawless abbiamo visto un interprete in grado di offrire prove di qualità però, questa volta, l’intensità e la passione che ci mette nel dar vita al personaggio di James sono tali da regalarci la performance più convincente della sua carriera. Mettere in scena così efficacemente il difficile rapporto padre/figlio ispirato all’infanzia di LaBeouf (grazie anche alla chimica tra l’attore classe 1986 e Noah Jupe) ci aiuta a comprendere non solo la sua tormentata vita privata ma il motivo per cui tanti enfants prodiges del cinema americano (come Macaulay Culkin, per fare un nome) siano entrati nello stesso tunnel, senza esserne mai usciti del tutto. (Fonte http://www.anonimacinefili.it/)

Intervista alla regista e agli attori
https://www.youtube.com/watch?v=yKHZ9cXK9jk

Il trailer
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