Ecco alcune recensioni ed approfondimenti sul film.
Alcuni estratti da Film4Life e da indieye.it:
"Cosa fareste se vi tenessero rinchiusi in casa per quattordici anni, senza alcun ritrovato tecnologico moderno per poter contattare il mondo esterno? Senza internet, né un computer né tantomeno un cellulare, ma potendo contare esclusivamente sulla compagnia della vostra famiglia e dei film trasmessi alla tv, come vi comportereste per riempire le vostre giornate? Quali sarebbero le vostre passioni, come formereste la vostra personalità? Domande esistenziali, che trovano risposta in The Wolfpack, il film che racconta la vera e scioccante storia della famiglia newyorchese Angulo, vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance nella categoria Documentari e trionfatore anche al Festival di Toronto. La pellicola diretta da Crystal Moselle ha inoltre aperto il concorso parallelo della Festa di Roma, Alice nella città, vincendone il premio Taodue.
The Wolfpack riassume quindi, in forma di documentario, i quattordici anni di “segregazione” dei sette figli Angulo, sei maschi e una femmina, costretti a rimanere in casa dal proprio padre, ad eccezione di alcune brevi “gite” monitorate, comunque rare, per le terribili strade della Grande Mela. Seguace del culto Have Krishna, il capo della famiglia Angulo teme infatti la contaminazione della malvagia società contemporanea, desiderando di mantenere puri e innocenti i proprio figli, dall’abbigliamento e dalla pettinatura identica, assumendosi anche l’onere della loro istruzione con l’aiuto della madre, la quale si presta a fare da insegnante. L’unica opportunità di evasione per i sette fratelli diventa così l’ampia videoteca presente in casa, utile non solo ad una semplice fruizione spettatoriale ma soprattutto ad incoraggiare la loro creatività. I ragazzi, infatti, con un catalogo che va da Tarantino a Nolan, finiscono col trascrivere parola per parola i loro film preferiti, per poi metterli in scena.
L’origine della pellicola va trovata nell’incontro, per le vie di Manhattan, dell’allora studente alla School of Visual Arts di New York Crystal Moselle con un gruppo di sei fratelli, di età compresa tra gli undici e i diciotto anni, che catturano la sua attenzione per il loro essere tutti vestiti uguali, con un look molto simile a quello dei protagonisti de Le Iene, per i lunghi capelli raccolti e gli occhiali da sole targati Ray-Ban. Con la regista in erba gli Angulo fanno quindi presto amicizia, condividendo la passione per il cinema, e pian piano introducono la ragazza nel loro bizzarro stile di vita. Da lì nasce il progetto di raccontare la loro storia, supportato dal Tribeca Film Institute, che ha assistito la Moselle non solo finanziariamente ma anche dal punto di vista tecnico.
Quello che ci raccontano le vive voci dei fratelli Angulo è il complesso e appassionato sistema di sopravvivenza messo in atto per resistere al carcere domestico, ma soprattutto, il rapporto con ciò che è stato per anni la loro unica finestra sulla realtà oltre la soglia di casa, il loro unico filtro sul mondo: la televisione. Lo strumento salvifico contro l’isolamento definitivo, contro l’annullamento estremo dell’immaginazione. Ciò che rappresenta lo schermo televisivo per i fratelli Angulo è, paradossalmente, la vera e propria esistenza. L’appartamento in cui si muove la videocamera di Crystal Moselle si trasforma in un set in continuo mutamento, una stanza dei giochi e al contempo in un crogiolo di citazioni cinematografiche riproposte e messe in scena dai sei fratelli: Pulp Fiction, Le Iene, Batman Begins, ecc. L’autorappresentazione di sé passa attraverso l’impellenza della reiterazione, della rimessa in scena di una realtà altra, fino all’identificazione in una nuova vita, che sia più attiva, piena, realmente viva. Gli infiniti mondi esplorati dagli Angulo diventano per assurdo l’unico modo per combattere il non essere nel mondo reale. The Wolfpack ci guida verso una riflessione inevitabile, mettendoci di fronte ad una realtà che ci suona assurda quanto familiare, un paradosso che sembra ribaltare lo stile di vita dell’uomo contemporaneo con la sua perfetta immagine speculare: se l’uomo libero si autorelega alla clausura domestica, i fratelli Angulo sembrano di contro gli individui più puri che aspirano ad emergere dal buio della caverna attratti dalle ombre di una luce indefinita. Quadro tragico e nichilistico dei tempi moderni, espressione di solitudine e isolamento, che sia la relegazione forzata nel guscio securitario genitoriale o l’esilio spontaneo dell’uomo che non accetta la vita e si rifugia nell’illusione effimera. Ma il film sembra aprirsi anche a riflessioni più estese. Da una sfera intima e drammatica si sposta su territori inaspettati, si apre a considerazioni sociologiche quanto mai attuali. La videocamera della Moselle si muove all’interno di un appartamento come tanti nei sobborghi di New York ma finisce col catapultarsi all’interno di un vero e proprio microcosmo, un nucleo autonomo che si discosta da quel fanatismo razziale metropolitano ma che allo stesso tempo lo estremizza. Il documentario finisce col diventare un esperimento sociale fortuito, uno studio etnografico su una tribù che vive di paradossi: ideologicamente fuori dal mondo ma che allo stesso tempo si nutre e sopravvive grazie ai prodotti della stessa società. I fratelli Angulo sono fuori dal mondo ma in esso totalmente immersi, come un cerchio resistenziale assediato senza tregua e senza via di fuga. La vita dei fratelli Angulo funge da efficacissimo quanto accidentale saggio critico sul concetto di postmoderno. La loro storia è la messa in atto involontaria di una modellazione identitaria ad opera dell’invadenza pubblicitaria, cinematografica e televisiva dell’era moderna. Pur mantenendo il loro Es genuino, i sei fratelli diventano le più evidenti vittime di quel subissamento dei più corrosivi prodotti della società capitalista. La madre-TV finisce così col salvarli dall’isolamento ma allo stesso tempo ne plasma le volontà e i desideri, fino a renderne le idee dei semplici simulacri. Un paradosso che fa riflettere e che, in una visione puramente pessimistica, sembra volerci suggerire quanto sia impossibile fuggire da una società dominata dai media.
E' piuttosto facile, all’apparenza, comprendere perché The Wolfpack sia riuscito a colpire tanto in positivo la critica, in patria quanto nel nostro paese: una storia forte e di immediata empatia, che invita sonoramente a vivere la vita e a non dare certe comodità per scontate (soprattutto nel momento della “scoperta” del mondo da parte dei fratelli e, poi, nella narrazione della loro decisiva “ribellione” al padre). Allo stesso tempo, ci si trova di fronte a grottesche estremizzazioni da un lato dei valori dell’unità familiare, dall’altro della deriva morale della società odierna, sotto un punto di vista provocatoriamente contraddittorio. La pellicola, infine, è un inno al cinema e al suo potere di evasione, probabilmente in una chiave mai così concreta e “reale”.
Eppure si può notare anche una precisa e per nulla banale sapienza registica, che si sviluppa brillantemente sulle “assenze”. In primis, degli stessi autori dietro la macchina da presa, che a prima vista si limitano a riportare testimonianze ed aneddoti così come sono, ma che invece giocano con il montaggio, provocando nello spettatore una certa difficoltà nel dargli una collocazione temporale, costringendolo a rivedere le proprie posizioni continuamente. In secondo luogo, le assenze riguardano gli stessi familiari protagonisti e in particolare il padre, sempre presente nei racconti dei figli, che la regista Moselle mostra però “fisicamente” solo in chiusura di pellicola, dando volto e parola ad una figura che fino a quel momento sembrava terribilmente e spaventosamente ultraterrena."
Eccovi un'intervista alla regista su come ha realizzato il documentario:http://www.vice.com/it/video/vice-talks-film-with-crystal-moselle-director-of-the-wolfpack-111
E un'intervista ai fratelli Angulo: https://www.youtube.com/watch?v=r2hC30V6KHw