# Focus – The Florida Project

Alcune recensioni e interviste relative al film.
"Venghino signori venghino, venghino nella luce aranciata di Orlando, in Florida, a due passi, anzi a uno sputo, da Disney World, fabbrica delle meraviglie per grandi e piccini e sogno americano tascabile da afferrare per la coda magari con un cono gelato in mano e una lattina di orange juice formato maxi.
Venghino in un motel color lilla abbellito da una mini-piscina dove maggiorate non più in erba trangugiano alcool nonostante il divieto da parte della direzione.
Venghino in un alveare a due piani chiamato Magic Castle che di magico ha poco o niente, ad eccezione degli sconti settimanali e degli sporadici furgoncini che distribuiscono gratuitamente waffles.
Venghino, infine, signori spettatori e signori WASP, nel poco esplorato universo dei cosiddetti "hidden homeless", i senzatetto nascosti che sono un prodotto della crisi economica del 2008 e che ogni giorno si arrangiano, a botte di "lavoretti", "furtarelli" e resilienza, per poter tirare avanti e non precipitare nella disperazione.

Come ce li racconta bene questi outcast Sean Baker, senza mai spiarli dal buco della serratura né analizzarli al microscopio quasi fossero cellule in provetta.  E con quale rispetto li osserva e con quanta compassione li fa risplendere, soffermandosi soprattutto sugli "esemplari" di giovanissima età. Ammettiamolo: il suo Un sogno chiamato Florida è uno dei migliori film sull'infanzia di sempre, un film fatto da un adulto, certo, ma un film ad "altezza bambino": tecnicamente (perché la macchina da presa dista da terra poco più di un metro e venti) e metaforicamente, dal momento che il regista è quasi sempre con la sua impertinente Monee (Brooklynn Prince) e con i suoi amichetti Jancey e Scooty, e con loro bighellona fra le insegne, i bar a forma di cup cake, i muri da scavalcare, i palazzi abbandonati da incendiare. E parla e agisce anche come parlano e agiscono loro, visto che il suo stile diventa mosso quando li sorprende in momenti di vivacità per poi rallentare e sfiorare la monotonia in accordo con il tempo della noia e della stasi.

Anche se la condizione in cui versa la sua piccola umanità è lo specchio del fallimento del capitalismo, ostentato nella sua dimensione più kitsch e grottesca, i suoi personaggi hanno un che di universale, perché in loro si intravedono i piccoli uomini e le piccole donne de "La guerra dei bottoni", "It" e "Le avventure di Huclkeberry Finn", e le loro caratteristiche sono quelle dei bambini di ogni luogo e di ogni tempo: la libertà, la determinazione, la gioia e il gioco come balsamo che lenisce il dolore. E l'immaginazione. Già, più di ogni altra cosa l'immaginazione, la fantasia, che nel film trasforma lo slum da 35 dollari a notte in un Oz comprensivo di streghe (gli assistenti sociali) e di magnanimi compagni d'avventura (il manager Bobby di un magnifico Willem Dafoe, padre riluttante ora dolce ora scostante).

Oltre ai bambini, che ci guardano con gli occhi di chi sta crescendo troppo in fretta e che hanno la dignità dei loro "fratellini" del nostro neorealismo, Un sogno chiamato Florida è un film di donne, donne sbagliate ma forti, donne senza boyfriend ma che ancora riescono a ridere, donne che sono madri imperfette, infantili ma tanto affettuose, e che, perfino quando fanno cose orribili, sono insostituibili, e questo Baker lo sa e ci tiene a dirlo, ed ecco perché il rapporto fra Halley dai capelli rosa e verdi (Bria Vinaite) e la sua bimba che parla come Carter di South Park è davvero l'ombelico del film, il suo grumo di "pietas", quell'albero caduto ma che ancora può crescere che la giovanissima protagonista della storia preferisce a tutti gli altri".

"La cosa più prevedibile del cinema di Sean Baker è che sai già che non puoi ben sapere cosa aspettarti dal suo film successivo. L’inizio della sua carriera è costellata da piccoli indie sempre più ‘grandi’ - si fa per dire -. Poi il regista decide di raccontare la vita di una giovane pornoattrice a Los Angeles: con un film da più di 200mila dollari (ancora poco o niente, ma più dei budget do it yourselfdei precedenti), con un'attrice pronta a salire alla ribalta (Dree Hemingway, ‘pronipote di’), ecc.

Poi arriva Tangerine, finanziato con manco la metà del budget di Starlet. Un film su un paio di amiche prostitute transgender e la loro vigilia di Natale, girato con l’iPhone. Il tutto in una Los Angeles torrida, lontana da Hollywood, in tutti i sensi. La differenza di budget tra Starlet e Tangerine conta fino a un certo punto, anche perché i due progetti sono di base molto differenti l’uno dall’altro. Però dopo Tangerine, appunto, ci si aspettava un’ennesima virata sorprendente da parte di uno dei registi americani più fieramente indie.

La risposta è il film più costoso della sua carriera, con budget da 2 milioni: un record qualche anno fa impensabile per un regista perfettamente a suo agio con progetti di altra portata. Sono soldi che il regista si merita a prescindere. E infatti la cosa più curiosa del progetto non sta nella sua ‘portata’, bensì nel suo ritorno alla pellicola. The Florida Project è infatti il secondo film della carriera di Baker ad essere girato in 35mm, e non il primo come molti riportano: anche il purtroppo dimenticato esordio, Four Letter Words, era girato in pellicola. E curiosamente con un budget assai più sostanziale dei successivi Take Out e Prince of Broadway.

Così, dopo aver esplorato i lati oscuri di NYC e LA, quelli meno rappresentati al cinema, Baker se ne va in Florida, un po’ fuori Orlando. Nella periferia vicino a Disney World c’è ovviamente una schiera di motel dai nomi strampalati e finto-ludici acchiappa-clienti. In quei motel ci vivono soprattutto famiglie. Moonee e Scooty vivono con le rispettive madri nel The Magic Kingdom. Quando le rispettive madri hanno uno screzio e non si parlano più, Moonee è costretta a trovarsi un altro ‘complice’ per le sue marachelle di giornata.

Così la bambina si avvicina sempre più a Jancey, che vive con la madre e la sorellina a Futureworld, altro conglomerato di motel vicino a quello di Moonee e della madre Halley. E proprio mentre la madre, stoner e tatuatissima, sbarca il lunario e si inventa modi per portare a casa i soldi per l’affitto, Moonee vive alla giornata prima assieme a Scooty e poi a Jancey, rischiando però di essere una cattiva influenza su entrambi…

In un anno pieno di film ‘coloratissimi’ (da Blade Runner 2049 fino all’ultimo discutibile Woody Allen), Baker punta molto sui colori di The Florida Project, sin dal viola del Magic Kingdom. C’è persino un arcobaleno, per dire. Baker colora un mondo ad altezza bambini: ma si tratta di bambini che ne combinano di tutti i colori, manco il film fosse la sua versione di Piccola Peste. Si seguono le loro avventure e disavventure con sorriso, complice la solita energia che Baker sa creare con le sue storie.

In mezzo a tutto il trambusto, c’è un Willem Defoe che regala una delle sue interpretazioni più belle e limpide della sua carriera. Guardiano del Magic Kingdom, il suo Bobby è il paziente ma severo protettore di un mondo che senza controllo rischierebbe di crollare. Il film lo dice in modo molto sottile, ma senza i Bobby di turno quei castelli crollerebbero in pochi minuti. Baker non forza mai la mano sul contesto sociale ed economico, anche perché è presente da sé e tanto basta". (cit. Gabriele Capolino)

Qui trovate un'interessante intervista al regista:
https://www.youtube.com/watch?v=zySOnKfm4SQ
collettivo.psicologia sinestesiateatro videocommunity cineteatrobaretti serenoregis psychetius arci cecchipoint officinecorsare